Ne ho scritto e ne ho parlato molto in questi due anni. E forse per una parte della politica e dei media di questo Paese, il fatto non è più “interessante”, perché tutto ha un prezzo nel mercato della comunicazione e pare che ormai di accertare la verità sul caso di Giulio Regeni, interessi alla famiglia, alla procura che sta indagando e a pochi altri.
A me e alla comunità politica che rappresento, la verità su quanto accaduto a Giulio interessa ancora, dopo due anni dal giorno della sua scomparsa, e continuerà a interessare, fino a che non avremo ricevuto ogni spiegazione su quanto accaduto.
Si badi bene, la ferma volontà nel pretendere giustizia e verità per Giulio non ha solo a che fare con il sentimento di rabbia per aver perso un giovane ricercatore italiano o con la riconoscenza nei confronti di tanti che come Giulio studiano, approfondiscono in giro per il mondo, anche a rischio della propria incolumità. Questi sentimenti ci sono tutti, come la profonda vicinanza alla famiglia Regeni.
Ma non si tratta solo di questo, c’è altro.
C’è che il caso di Giulio è ormai divenuto un simbolo della debolezza politica del nostro Paese e dell’ipocrisia di un bel pezzo della classe dirigente, che di mattina fa comunicati per chiedere verità e di notte stringe accordi commerciali, manda l’ambasciatore al Cairo, ripristina le normali relazioni politiche, istituzionali ed economiche con un regime, quello egiziano, che non ha detto nulla né ha mostrato molta volontà di collaborazione, per scoprire cosa è accaduto a uno dei figli di questa nostra terra.
Al contrario, dopo un iniziale sussulto di orgoglio e di dignità, l’Italia ha subito mollato la presa e ha avuto fretta di lasciare in secondo piano la vicenda Regeni, per ricominciare a dialogare con l’Egitto sugli affari economici da portare avanti nell’area.
Inaccettabile.
Ci sono numerosi documenti su cui la Procura di Roma ha acceso un faro, come tante indiscrezioni sono venute fuori da inchieste della stampa. Penso in particolare a quanto scritto dal New York Times qualche mese fa, che tirava persino in ballo l’ex premier Matteo Renzi, e l’ultima inchiesta del quotidiano La Repubblica, che divulga un verbalein cui c’è scritto a chiare lettere che Regeni fu consegnato agli uomini di Al Sisi.
Tutti questi elementi avrebbero dovuto essere sufficienti a definire un quadro per cui il governo italiano avrebbe dovuto (e ancora dovrebbe, per la verità) mantenere un comportamento di piena intransigenza nei confronti di Al Sisi e del governo egiziano.
Tutti elementi sufficienti a richiedere persino l’intervento dei paesi dell’Unione Europea, per convincere Al Sisi a restituire la verità sui fatti e dignità alla storia, al nome e alla memoria di un giovane ricercatore.
E invece, nulla.
Lo scorso agosto, mi opposi pubblicamente e con forza all’annuncio ferragostano del governo italiano, di rimandare il nostro ambasciatore nella capitale egiziana, proprio perché convinto dell’importanza di non mostrarsi deboli e remissivi, nei confronti di un governo che ha consentito che nel suo paese perdesse prima la libertà e poi la vita un ricercatore universitario italiano.
Ricordo bene le scarse reazioni. Tanto silenzio nella politica, complici forse anche le calure agostane, e poi qualche rassicurazione sul ruolo di Al Sisi nella ricerca della verità. Da agosto sono passati sei mesi e per quello che si apprende, il quadro è rimasto fondamentalmente immutato. Restano irrisolti tutti i nodi di questa vicenda, come senza risposta rimangono le inchieste giornalistiche, che sono cadute nel silenzio generale.
Noi non abbiamo alcuna intenzione di tacere o di fare passi indietro e continueremo a essere nelle piazze italiane, in tante e tanti, a chiedere dopo due anni ancora giustizia e verità per Giulio, e dignità per la sua famiglia e per il nostro Paese.
Nicola Fratoianni