“Vivere per lavorare o lavorare per vivere?” Così dal palco di Sanremo ha cantato lo Stato Sociale, dando note e voce a una delle questioni cruciali del nostro tempo e delle nostre società.
Per questo è importante il segnale arrivato dalla Germania dieci giorni fa, con il rinnovo del contratto dei lavoratori metalmeccanici, siglato dal sindacato IG Metall e dall’organizzazione padronale del land Baden-Württemberg, a fare da apripista a un analogo accordo nazionale.
I punti essenziali del nuovo contratto prevedono un aumento salariale del 4,3% e più flessibilità per i lavoratori che potranno ridurre l’orario di lavoro settimanale fino a 28 ore per un periodo minimo di sei mesi fino a 24 mesi.
Come contropartita si prevede più flessibilità anche a vantaggio dei datori di lavoro, che potranno aumentare contestualmente il numero dei lavoratori ingaggiati per 40 ore di lavoro settimanali. Una tantum a ulteriore integrazione del salario sarà pagata nel corso del 2018.
Il giudizio su questo contratto non può che essere ambivalente. Articolata è la posizione della stessa Sinistra tedesca. Intanto per i destinatari: al momento l’accordo riguarda 900mila dipendenti metalmeccanici e, in prospettiva, dovrebbe essere adottato per i quasi 4 milioni di lavoratori rappresentati da IG Metall.
Rimangono comunque scoperti gli operai precari, con contratti a tempo determinato, o di lavoro temporaneo assunti da agenzie interinali, all’interno delle stesse fabbriche. In secondo luogo per la flessibilità in una doppia direzione: alla riduzione d’orario corrisponde la possibilità di aumentare il tempo di lavoro, con un più ampio ricorso agli straordinari.
Vi sono tuttavia due punti di grande importanza, quasi impensabili nella situazione sociale e sindacale italiana. Da una parte s’introduce il principio – quasi “biopolitico” – del primato del tempo di vita sul tempo di lavoro, della riproduzione sulla produzione: la possibilità di portare l’orario fino a 28 ore settimanali (e di aggiungervi ulteriori otto giorni di assenza) per “esigenze familiari”, ossia la cura di persone ammalate o anziane, fragili o non autosufficienti, o la crescita dei figli, senza alcuna discriminazione di genere, costituisce un riconoscimento del diritto a modulare la propria prestazione lavorativa sulla base dei più significativi bisogni della persona umana.
Dall’altra, con la rottura del blocco salariale e l’introduzione di primi significativi aumenti in busta paga, si dimostra che i soldi ci sono; che in questi anni le imprese, nonostante la crisi, hanno continuato ad arricchirsi; e che è arrivato il momento di cominciare a ridistribuire almeno parte di questi enormi profitti.
Vale per la Germania, ma vale anche per l’Italia. Il tema della riduzione dell’orario di lavoro deve essere certo materia di contrattazione tra le parti sociali, come giustamente stanno proponendo le organizzazioni sindacali più avanzate.
Ma crediamo anche che possa essere oggetto di specifiche iniziative legislative: in particolare a favore del lavoro precario e di quei crescenti settori che non sono coperti dallo strumento dei contratti collettivi nazionali. Così come la ridistribuzione della ricchezza, a partire da necessarie riforme fiscali, è uno dei punti su cui misureremo la volontà di cambiamento di tutti.
Che in Germania questa strada si apra proprio in coincidenza con il ritorno della formula governativa – regressiva e improduttiva – della “grande coalizione” tra i partiti di centrodestra e centrosinistra, è viceversa un segnale di grande vitalità sociale, del movimento sindacale e della Sinistra, nel cuore dell’Europa.
Anche di questo discuteremo sabato 17 febbraio alle ore 18.30 a Roma alla sala Capranichetta di piazza Montecitorio con Katja Kipping, la leader di Die Linke, uno dei nostri strategici alleati nel tentativo di immaginare e realizzare un’Europa democratica, dei diritti e della giustizia sociale.
Nicola Fratoianni