Per dare risposte convincenti alla crisi del settore siderurgico, non solo alla cittadinanza o al “popolo inquinato”, ma anche ai lavoratori che rischiano il posto di lavoro oltre che la salute, serve in primo luogo stabilire delle priorità, in poche parole decidere da dove è più urgente partire. Penso che la continuità e il rilancio della produzione siderurgica sia credibile solo dando priorità al pagamento del debito grande che si è accumulato verso la popolazione, un debito di avvelenamento di aria, acqua e terra, che ha causato gravi problemi alla salute pubblica.

Non c’è risposta credibile alla crisi e al declino industriale senza questa inversione di priorità. Al di là della parola sostenibilità, che spesso si spende, abusandone, in convegni e assemblee, non c’è dubbio che i problemi ambientali che le acciaierie, come qualsiasi produzione industriale determina, sono state finora sempre presi in considerazione a valle della crescita, cioè una volta che questa era stata realizzata, anzi sono stati quasi sempre considerati come un ostacolo allo sviluppo dell’azienda.

Quante volte ci siano sentiti dire che il diritto a produrre in modo pulito e non dannoso per le persone, in primo luogo quelle che lavorano nello stabilimento, era un ostacolo? La sola ipotesi di chiudere una fabbrica i cui cicli produttivi avvelenano l’ecosistema in cui è inserita, mettendo a rischio la salute pubblica è tuttora considerata una follia.

Questo approccio culturale alla questione va definitivamente superato, non solo perché è sbagliato, ma soprattutto perché provoca un conflitto fra lavoro e ambiente che finisce quasi sempre con la chiusura della fabbrica e lasciando il territorio avvelenato. Il futuro industriale del nostro paese, e segnatamente quello dell’industria siderurgica, sarà possibile solo con questo nuovo approccio culturale al problema, rovesciando cioè le priorità e assumendo la tutela dell’ambiente come chiave di un diverso sviluppo.

Assumere questo punto di vista non significa aderire a posizioni anti industria e all’idea che si lascia la produzione ai paesi emergenti, in poche parole alla Cina, mentre da noi ci si dedica all’economia smaterializzata. Al contrario chi si batte per una riconversione ecologica dell’economia e della società ha bisogno di fabbriche aperte e in salute se vuole usare per costruire la sostenibilità l’accumulo di culture e competenze che si concentrano in una fabbrica e in una determinata produzione. Ecco la sfida grande a cui siamo chiamati.

Garantire a questo paese, e più in generale all’Europa, un presidio siderurgico di qualità, non solo risponde al nodo che l’acciaio è prodotto strategico del futuro, ma anche alla reale possibilità di produrlo in modo pulito e soprattutto sanando i disastri provocati dai vecchi cicli produttivi.

La chiusura dell’Ilva di Taranto o delle acciaierie di Piombino o di Terni non è una buona notizia non solo per chi resta senza lavoro, ma anche per coloro che perseguono la riconversione ecologica dell’economia.

Come potrebbe affermarsi un futuro sostenibile se non si fosse in grado di indicare un credibile disegno di nuovo sviluppo e contemporaneamente una massa critica di interventi sufficienti ad avviarlo? Sarebbe abbastanza vacuo parlare di riconversione ecologica dell’economia se non si fosse in grado di dimostrare che essa è elemento costitutivo per produrre meglio, in modo più pulito e anche con meno fatica. La domanda è, quindi, può esistere una siderurgia pulita? Non solo la risposta è positiva, ma perseguire cicli produttivi non inquinanti per produrre acciaio, accompagnati da una forte innovazione di prodotto, è la sola garanzia per garantire continuità alla produzione siderurgica italiana ed europea.

È necessario che la priorità ambientale si traduca nella scelta di bonifica e messa in sicurezza del pregresso. A Taranto, come a Piombino, con le fabbriche aperte va messa in atto la bonifica e fatto vedere a una cittadinanza stanca e sempre più restia ad accettare l’inquinamento con il ricatto dell’occupazione che in un periodo di tempo ragionevole può tornare a respirare aria pulita, bere acqua e vivere in un territorio non avvelenato. Deve insomma finire questa ricerca di imprenditori a cui svendere le acciaierie, senza impegni di risanamento ambientale e accontentandosi solo della presentazione di un raffazzonato piano industriale. Così si trovano solo speculatori e inquinatori. Se come si dice produrre acciaio è non solo economicamente vantaggioso per il paese, ma addirittura strategico per il suo futuro industriale, è necessario pensare a un intervento pubblico, definendo le politiche industriali che si perseguono e le priorità con le quali si attuano. Per stare all’Ilva, prima va definita la bonifica e soprattutto che la si fa a fabbrica aperta, producendo. La stessa cosa riguarda Piombino.

Un secondo punto per il rilancio della siderurgia riguarda l’energia. È fondamentale sottoporre le acciaierie a una cura radicale di risparmio energetico. Nessuno dei poli siderurgici italiani ha in questi anni presentato piani con cui sottoporre le aziende a processi di efficienza e uso razionale dell’energia. Non è solo responsabilità degli imprenditori, ma più in generale della politica energetica che i vari governi hanno alimentato, che in tema di risparmio energetico non è andata oltre i certificati bianchi che del potenziale possibile risparmio di fonte primaria raccolgono solo una minima parte. Sulla partita energetica si gioca molta parte del futuro industriale del paese oltre che le possibilità di governare il cambiamento climatico in atto. Pur condividendo le perplessità sul merito dei ricorsi al Tar di Emiliano e del sindaco di Taranto contro il decreto del governo sugli impegni di bonifica dell’Ilva, io credo che non si possa liquidare la vicenda con il ricatto della chiusura dell’altoforno. Perché al di là delle possibilità reali di realizzare la decarbonizzazione dell’acciaieria attraverso l’uso del metano, la questione di una rapida uscita dal combustibile fossile più climalterante, oltre che inquinante è questione serissima da affrontare ora come progetto e riflessione strategica.

La terza e forse più importante questione riguarda il nodo della ricerca e dell’innovazione nell’industria siderurgica. C’è un evidente problema di innovazione di prodotto e dei cicli produttivi, che richiama nuovamente il problema dell’intervento pubblico, cioè dello stato della ricerca italiana che sicuramente non è all’altezza delle sfide che la globalizzazione e il cambio di clima impongono.

Rossella Muroni