La ricerca, la formazione, l’innovazione e la diffusione della conoscenza, delle arti e della musica sono condizioni imprescindibili per uscire dalla crisi e per ripensare il futuro del nostro Paese. Difendere l’università, la ricerca e le istituzioni dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM) vuol dire affermare il ruolo sociale del sapere e della creatività, predisporre uno sviluppo economico, sociale e culturale dei popoli di tipo qualitativo, costruire una società in grado di affrontare le sfide dei grandi mutamenti ambientali, tecnologici, demografici, sanitari e migratori, proporsi alla guida dei processi globali per la conversione ecosostenibile dei sistemi produttivi e per la differenziazione energetica sganciata dal fossile.
L’accesso all’Università, alle Accademie ed ai Conservatori non è solo un diritto individuale di accesso a un servizio ma un investimento strategico.
L’università, la ricerca pubblica e le istituzioni AFAM devono aprirsi alla società, esplicitare la loro utilità sociale e basarsi su forme di gestione democratiche e trasparenti, emarginando le logiche autoreferenziali che hanno generato distorsioni e nepotismi.
La crisi strutturale dell’università e della ricerca pubblica italiana
Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito al continuo sotto-finanziamento del sistema universitario e della ricerca pubblica nazionale. Al taglio di 1 miliardo di euro nel Fondo di finanziamento ordinario operato dal 2008 a oggi e al blocco del turn over sono seguiti il calo degli immatricolati; il penultimo posto dell’Italia in Europa per numero di laureati; crollo del numero di docenti di ruolo (-20% dal 2008 a oggi) e impennata della precarizzazione dei ricercatori, con l’espulsione di 97 ricercatori precari su 100 dal 2008 a oggi.
Questo stato di sofferenza colpisce con inaudita gravità anche gli enti pubblici di ricerca, soggetti a misure di sotto-finanziamento, a una razionalizzazione selvaggia in spregio all’utilità strategica di molti istituti e a un’esplosione del precariato – non solo e non più giovanile – nei cui confronti le misure di stabilizzazione proposte dal ministro Madia si pongono in termini ambigui e insufficienti, specialmente se non accompagnate da adeguati finanziamenti. Ciò è dimostrato dalle recenti numerose occupazioni di enti pubblici da parte dei precari.
Tale situazione è la conseguenza di precise scelte di politica economica e di politica universitaria, esemplificate dai tagli lineari operati con la legge 133/2008 e dalla legge 240/2010, approvata dal governo Berlusconi IV e implementata senza sostanziali discontinuità dai governi Monti, Letta e Renzi. Queste politiche sono state condotte sulla base di una narrazione mainstream che ha diffuso false credenze sul nostro sistema nazionale: che ci siano troppo università; troppi laureati; che le contribuzioni studentesche siano troppo basse. Qualsiasi confronto comparativo con le realtà europee dimostra l’infondatezza di questi luoghi comuni.
L’obiettivo delle politiche degli ultimi dieci-quindici anni è consistito dunque nella contrazione del sistema universitario nazionale e nel drenaggio di risorse a favore di pochi poli nell’idea, di fatto, che l’università di massa sia uno spreco di risorse. Si tratta di un’impostazione che lede il diritto all’istruzione per acquisire gli strumenti di esercizio pieno della cittadinanza e che di fatto ripropone la più tradizionale delle selezioni di classe; impone la desertificazione di interi sistemi accademici territoriali con un grave impatto soprattutto nel Mezzogiorno: l’impoverimento di docenti, 17% in media, è relativamente basso negli Atenei del Nord (6-7%) e alto al Centro-Sud (22% al Centro, 18% al Sud).
Invertire il ciclo: aumentare le risorse e ripensare la valutazione
Senza risorse ogni riforma, ogni intervento di programmazione, valutazione e indirizzo è pregiudicato o stravolto. Un aumento dei finanziamenti è dunque la prima condizione per invertire la rotta.
Occorre agire anche sulle modalità di distribuzione delle risorse, contro lo screditamento del sistema pubblico di istruzione e ricerca che ha portato a dirottare le risorse verso aiuti indiscriminati di dubbia utilità a poche imprese, senza che a questo corrisponda peraltro ad un aumento della loro capacità di innovazione, e verso fondazioni di diritto privato per la realizzazione di poli di (sedicente) eccellenza, lasciando sguarniti ampie fette di territorio del paese ad intenso bisogno di alta formazione, come nel Mezzogiorno. Questo modello, oltre ad esse poco efficace, è anche in contrasto con la nostra Costituzione. Il caso di Human Technopole è emblematico da questo punto di vista. Le ingenti risorse pubbliche impiegate in quel progetto sono state allocate senza bandi ed in modo diretto ad un soggetto privato bypassando tutto il sistema pubblico di ricerca.
L’Anvur, agenzia tecnocratica di valutazione del sistema universitario, ha di fatto assunto il ruolo di arbitro della politica universitaria. Importanti scelte di distribuzione delle risorse sono determinate non da un’analisi politica, che tenga conto di fattori sociali, economici e culturali, ma dal risultato di parametri dalla discutibile base scientifica che, dando l’idea di essere univocamente determinate, in realtà nascondono scelte arbitrarie. A fronte della compressione nazionale dei finanziamenti, il processo di valutazione, che determina la quota “premiale”, così come è strutturato, non attiva meccanismi di riequilibrio ma accrescere i divari, soprattutto tra università del nord e del Mezzogiorno. Lo strumento “premiale” è, quindi, uno strumento punitivo soprattutto delle Università della parte più debole del Paese. La valutazione, in un contesto di taglio delle risorse si è ridotta a un approccio punitivo e non di riequilibrio del sistema. Ha inoltre seguito criteri che non tengono conto della complessità delle attività dei contenuti e del contesto.
Occorre dunque:
- aumentare il finanziamento ordinario per università e ricerca, negoziando con l’Unione europea un aumento di congrue percentuali annue di PIL come investimento pubblico fuori dal patto europeo di stabilità
- individuare risorse per superare il precariato e stabilizzare il sistema universitario e degli enti pubblici di ricerca (EPR)
- riconoscere la dignità della docenza anche attraverso lo sblocco degli scatti delle retribuzioni
- abolire l’Anvur o ridefinirne dalle fondamenta il mandato per un’agenzia della valutazione con un governo partecipato dalla comunità scientifica e garanzia di autonomia dalla politica, innanzitutto con personalità inattaccabili.
- convocare una conferenza nazionale sui criteri di valutazione dei singoli e delle istituzioni
- definire nuove finalità della valutazione che superino la logica della competizione tra atenei per un approccio di governo equilibrato del sistema
- riportare la programmazione strategica a scelte di governo del sistema e non a parametri automatici basati su criteri tecnocratici, e definire conseguentemente la distribuzione dei finanziamenti.
Una università aperta a tutti/e.
In Italia l’università è sempre più riservata ai ceti benestanti: solo il 22 % dei giovani che la frequentano, secondo Almalaurea, ha una origine sociale meno favorita. Tuttavia il nostro paese non si impegna a rimuovere le barriere economiche all’accesso all’istruzione terziaria. La crisi, l’aumento delle tasse – aumentate in media del 50% e tra le più alte dell’Europa continentale – e il numero chiuso hanno vanificato l’accesso di massa all’istruzione universitaria. La combinazione di alte tasse universitarie – pagate da una quota largamente maggioritaria della popolazione studentesca – e un esiguo numero di percettori di borse di studio, rende quello italiano uno dei sistemi più iniqui presenti nel panorama europeo. L’Italia risulta infatti uno dei paesi col più basso rapporto tra idonei alla borsa di studio e iscritti all’università. Nel nostro paese il diritto allo studio interessa meno del 10% della popolazione universitaria a fronte del 36% della Francia, del 25% della Germania ecc, come testimoniano i dati Eurydice, paese, quest’ultimo, in cui gli studenti inoltre non pagano le tasse universitarie.
Per ribaltare la narrazione mainstream degli ultimi anni occorre affermare la prospettiva di un ampliamento della gratuità dell’istruzione universitaria. L’innalzamento dei livelli di istruzione attraverso la generalizzazione dell’accesso all’università rappresenta, infatti, un obiettivo strategico per tutto il paese. L’obiettivo della gratuità va affermato prevalentemente attraverso due leve: l’abolizione della contribuzione studentesca; un potenziamento del diritto allo studio in grado di realizzare pienamente il mandato costituzionale, per rimuovere le barriere economiche, sociali e territoriali che si frappongono all’accesso agli studi. La gratuità della formazione universitaria costituisce una concreta occasione per restituire il sistema a una logica solidale: i redditi alti, correttamente individuati, devono essere chiamati a contribuire, attraverso la fiscalità generale e una rimodulazione, in base al reddito, della tassa regionale per il diritto allo studio. È credibile e sostenibile raggiungere livelli di esenzione pari agli esempi europei più virtuosi sopra richiamati.
Il diritto allo studio dovrà evolvere verso politiche abitative efficaci, in grado di preservare gli studenti e le loro famiglie dagli effetti di un mercato sregolato abbandonato alle logiche della rendita, e contemplare facilitazioni nei trasporti.
Contro la precarizzazione della ricerca e della formazione.
Dieci anni di tagli al sistema universitario e della ricerca pubblica, combinati con il blocco del turn over e la ridefinizione dell’accesso ai ruoli accademici disposta dalla legge 240/2010, hanno introdotto inaccettabili livelli di precarizzazione dei ricercatori, su cui grava una parte rilevante delle funzioni essenziali di didattica e ricerca svolte nei nostri atenei. La precarietà non è solo una gravissima condizione professionale ma pregiudica la qualità e l’innovazione nella ricerca e nella didattica.
Liberi e Uguali si pone l’obiettivo di superare questa situazione, attraverso l’azione combinata di una riforma del pre-ruolo e di un congruo piano di investimento pluriennale per il reclutamento di giovani ricercatori e professori associati. Ridisegnare il pre-ruolo significa soprattutto razionalizzare e semplificare l’attuale giungla di figure e contratti precari frapposti tra il dottorato e l’ingresso nei ruoli dell’università. Solo dopo aver dispiegato queste misure sarà possibile procedere a una stabilizzazione del sistema, attraverso coerenti politiche di programmazione ordinaria di fabbisogno del personale ricercatore e docente. Coerentemente con le richieste provenienti dalle parti sociali, Liberi e Uguali propone un piano quinquennale di nuove assunzioni, con un programma di reclutamento continuo e pianificato, di almeno 20.000 nuovi ricercatori negli atenei e 10.000 negli EPR, che superi, tenendo conto dell’esperienza maturata e dei risultati ottenuti, l’enorme sacca di precariato esistente, evitando contestualmente che si ricrei.
Affinché possa essere perseguito l’obiettivo di una normalizzazione della condizione professionale della ricerca italiana occorre intervenire anche sul versante dell’abilitazione scientifica nazionale (ASN) e del dottorato:
- è ingiusto che a un ricercatore abilitato, cui è stato precluso l’ingresso nei ruoli accademici a causa della carenza di concorsi, venga inflitta la scadenza della sua abilitazione: l’ASN, una volta conseguita, non deve scadere o, quanto meno, deve restare valida per almeno 10 anni
- coerentemente con la sua dimensione di formazione di eccellenza, il dottorato deve tendere: alla copertura totale con borsa dei posti banditi e all’aumento della borsa di dottorato secondo livelli congrui al costo della vita; all’abolizione delle residue forme di tassazione; alla piena valorizzazione del titolo di dottorato anche nella scuola, nella pubblica amministrazione e nel sistema produttivo.
Il governo democratico delle istituzioni di ricerca e il profilo culturale dell’offerta didattica
Nelle università e negli Enti si è perseguito un modello di verticalizzazione della governance incentrando nel Rettore e nel preside i poteri e svuotando il ruolo degli organi collegiali e un modello di aziendalizzazione. Scelte che non hanno generato efficacia, efficienza e trasparenza. Occorre realizzare nuove forme di partecipazione democratica alla vita degli atenei assumendo il fallimento della legge 240/10.
Parimenti, sembra opportuno avviare una seria riflessione sull’efficacia del sistema 3+2 nel definire, in questi anni, due percorsi distinti e complementari. Esso è stato alla base di processi di frammentazione dei percorsi formativi e, spesso, di una loro dequalificazione. Si propone pertanto di realizzare un’indagine nazionale sull’offerta didattica per giungere a delle proposte di revisione degli ordinamenti didattici.
Rafforzare il sistema non fermarsi alle eccellenze
All’interno del problema nazionale di riduzione dei finanziamenti alle Università, c’è una gravissima questione meridionale con spostamento di risorse dal Sud al Nord che si concretizza in diversi modi.
Dall’ammontare nazionale del FFO, una sua percentuale, progressivamente dal 7% al 25% dal 2009 al 2016, viene distribuito tra gli Atenei in base alla qualità della ricerca svolta. Quindi, tutti gli Atenei ricevono meno FFO, ma mentre alcuni potranno ridurre il danno attraverso la quota “premiale”, altri lo vedranno aumentato in quantità anche drammatiche. In questo modo si è verificato un graduale ma costante trasferimento di fondi dagli Atenei del Sud ad altri Atenei, in particolare di alcune zone del Nord.
Una “finta” retorica del merito, mira, a creare in Italia poche Università di eccellenza, tutte concentrate nel Nord, di fatto desertificando il Meridione e parte del Centro da cultura e saperi (ma anche zone del Nord, si pensi alla Liguria, per esempio). Tutto ciò coltivando erroneamente l’idea che il Paese possa migliorare e crescere se ci sono punte di eccellenza, concentrate in alcune zone. La strada da percorrere è invece completamente diversa: finanziare e favorire una buona qualità e competenza diffusa su tutto il territorio nazionale, che, peraltro già c’è.
A nostro parere in Italia non si ha bisogno di pochi centri di eccellenza, o di pochi “superprofessori” (le 500 cattedre Natta, annunciate in pompa magna direttamente dall’allora presidente del consiglio Renzi, che sembra si stiano di fatto smantellando a poco a poco -ecco un altro obiettivo di Liberi e Uguali: la soppressione dell’idea stessa che sta alla base delle cattedre Natta), ma di una qualità elevata, diffusa su tutto il territorio nazionale, “isole comprese”, di didattica e ricerca, e di molti buoni professori.
L’ultimo grave colpo in questa direzione è il travaso delle già poche risorse dal sistema nel suo complesso agli atenei del Nord e in misura minore del Centro per il tramite della “gara” tra i dipartimenti per una quota premiale di 1,3 miliardi, che dagli algoritmi con cui sarà gestita fa prevedere che solo 180 milioni di questa somma (il 13%) andranno al Sud e alle Isole, dove insiste il 31% degli organici di docenza e di ricerca. Questa dinamica ha un effetto indiretto: aumento di immatricolazioni in Atenei del nord, diminuzione in quelli del Sud, con successivo, inevitabile circolo vizioso di minori finanziamenti dovuti al numero di studenti; e studenti che “emigrano” per studiare.
Agli squilibri derivanti da una distorsione della valutazione e del finanziamento ordinario si aggiunge la mancanza di chiari indirizzi strategici a livello nazionale, con conseguenti frammentarietà e politicizzazione dei pochi avvisi pubblici nazionali e, soprattutto, regionali per la R&S, che non sono indirizzati né da un valido Programma Nazionale della Ricerca (PNR), né da una inesistente politica industriale nazionale, e neanche dalle S3 regionali (cioè le Smart Specialization Strategies delle stesse regioni), con bassa corrispondenza con le filiere industriali più innovative e con interventi “a pioggia”.
I finanziamenti, il sistema di valutazione il governo del sistema devono mirare a superare gli squilibri territoriali per innalzare complessivamente la qualità della ricerca e dell’offerta didattica per ottimizzare le risorse e garantire pari offerta ai territori e agli studenti.
Occorre ricondurre a un ministero ad-hoc (il MURST) o a un Comitato Interministeriale di Programmazione della Ricerca (CIPR, con funzioni e prerogative equivalenti al CIPE) le responsabilità di indirizzo strategico e di coordinamento sia per il sistema universitario (FFO) che soprattutto per la Ricerca (PNR), ora frammentata in molti dicasteri. Assicurarsi che tali organi decisionali siano affiancati da organi consultivi e propositivi sia di fiducia del governo che di rappresentanza della comunità scientifica e produttiva del Paese.
La conoscenza come leva per uscire dalla crisi e per una nuova qualità dello sviluppo
Gli investimenti in ricerca e formazione sono condizione per uscire dalla crisi ripensando lo sviluppo, la sua qualità sociale e la sua relazione con le risorse e gli equilibri naturali. L’innovazione deve essere parte di politiche industriali che scelgano priorità produttive e ripensino la collocazione internazionale del Paese, che facciano di nuovi bisogni e nuove consapevolezze l’occasione per un modo di produrre capace di un’occupazione diffusa e di qualità. Il recupero la tutela e la manutenzione del territorio, la riconversione ecologica dell’economia, la tutela della salute e la reinvenzione della vivibilità e della socialità delle città, il ripensamento delle relazioni tra nord sud del mondo sono necessità e occasioni per riorientare l’economia per le quali la conoscenza e l’innovazione hanno un ruolo strategico.
La funzione sociale dell’università e della ricerca si esplica attraverso il rapporto con la società e con il sistema produttivo. La ricerca e la formazione devono orientare lo sviluppo e creare nuove opportunità di occupazione, non adeguarsi all’esistente. I supporti all’innovazione non devono limitarsi ad accompagnare le strategie delle grandi imprese o a distribuire a pioggia aiuti alle PMI ma integrarsi con le politiche industriali e con il perseguimento di obiettivi strategici.
La valorizzazione della conoscenza e i processi innovativi non sono fenomeni spontanei guidati dalle imprese. Il nostro paese vede il più basso investimento in Europa da parte delle imprese in innovazione I supporti all’innovazione non devono limitarsi ad accompagnare le strategie delle grandi imprese o a distribuire a pioggia aiuti o sgravi fiscali alle PMI ma avere un approccio attivo integrato con le politiche industriali e con il perseguimento di obiettivi strategici di indirizzo.
Occorre dunque:
- promuovere un Piano Nazionale Strategico per l’Innovazione che non riguardi solo le regioni di convergenza ma abbia priorità nazionali: le aree urbane in ritardo di sviluppo, settori produttivi e obiettivi strategici, qualificazione e recupero del territorio, transizione dai combustibili fossili, economia circolare, salute
- ripensare radicalmente i tirocini in azienda e i crediti per esperienze in impresa; costituire un albo nazionale delle imprese idonee e regole sulle attività ammissibili, incompatibilità con cassa integrazione e sostituzione
- creare un nuovo Fondo Nazionale per la Ricerca di Base o “Ricerca curiosity-driven”, gestito dal Ministero con Avvisi pubblici nazionali (es: rifinanziando adeguatamente i bandi FIRB) e con un sistema di peer-review molto “aperto” a sostenere nuovi filoni di indagine, soprattutto nelle aree “di frontiera” e interdisciplinari, che garantiscano anche lo sviluppo delle aree umanistiche
- configurare un’attività permanente di coordinamento tra Stato e Regioni finalizzata ad ampliare gli interventi per la ricerca applicata, per il trasferimento tecnologico e per azioni di alta formazione tecnologica, affinché gli investimenti statali e regionali risultino sinergici, si evitino sprechi e duplicazioni – anche attraverso mappature adeguate delle attività esistenti – si attivino nuovi investimenti privati, ad esempio migliorando e rafforzando l’esperienza dei Cluster Tecnologici Nazionali nei settori innovativi del Paese,
- riqualificare gli attuali Uffici di Trasferimento Tecnologico degli atenei e degli EPR, inserendoli in rete con gli organismi territoriali di promozione dell’innovazione , soprattutto, con le filiere tematiche regionali (Distretti Tecnologici o Cluster regionali).
- attuare una reale Anagrafe delle Ricerche, di tutti i finanziamenti pubblici concessi dai vari Ministeri e Regioni per progetti di ricerca
- implementare l’Open Access, vale a dire l’accesso gratuito online a tutti i risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici
- Attivare Corsi Superiori a valenza nazionale di Management della Ricerca e dell’Innovazione, volti sia a diffondere nuove competenze che a formare una classe di operatori capaci di valorizzare i risultati scientifici e tecnologici e di trasferire innovazione nel mercato.
- Riconoscere l’attività svolta dagli operatori del sistema di supporto, valorizzazione e diffusione spesso con rapporti precari la cui risoluzione fa perdere competenze al sistema.
Le arti e la musica: uscire dall’oblio
Le Istituzioni di Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica sono state equiparate alle Università da una legge di 18 anni fa mai attuata. Riconoscere il loro status e la loro autonomia direttamente discendente dalla Costituzione è una priorità per il Paese ed un diritto per i docenti e gli studenti, ora oltremodo penalizzati rispetto ai loro omologhi stranieri (e universitari italiani). Per questo l’AFAM, pur con i dovuti distinguo, condivide largamente le piaghe ed i rimedi del sistema universitario già discussi nei paragrafi precedenti: sottofinanziamento, precarizzazione, svuotamento, verticalizzazione, spinta verso le eccellenze di pochi invece che verso la qualità diffusa, disconoscimento del valore sociale delle arti e della musica. Le priorità sono, in ordine di urgenza: abbattere il precariato, mettere in ordinamento i bienni e rafforzare la filiera della formazione (primaria, media, licei musicali, corsi propedeutici, III livello, dottorati), finanziare la ricerca ed i dottorati, equiparare lo status e le retribuzioni dei docenti a quelli universitari, e ricostituire le forme di rappresentanza della comunità omologhe al CUN.