Egr. Tesoriere del Partito Democratico, Onorevole Bonifazi, non ho risposto tempestivamente alla sua prima lettera nella quale mi chiedeva di versare 83.250 euro al Pd in ragione della mia elezione al Senato nel 2013 perché ho considerato la modalità attraverso la quale ha scelto di farmi giungere tale comunicazione, ossia i giornali, un colorito quanto basso espediente da campagna elettorale. Immagino inoltre che non sia stata casuale la scelta del 3 dicembre 2017 per darne notizia, giorno nel quale ho pubblicamente aderito a Liberi e Uguali. Il suo modo di agire appare dunque un atto di ritorsione a carattere propagandistico piuttosto che una sincera volontà di fare chiarezza.

La reiterata pubblicità che lei e i suoi colleghi di partito hanno dato a mezzo stampa di questa vicenda suggerendo in maniera neanche troppo velata la mia malafede e la mia presunta morosità mi costringe ad alcune precisazioni:

A. Non ho mai ricevuto da voi alcuna comunicazione in merito alla quota economica mensile che avrei dovuto versare al Pd in ragione della mia elezione, né le modalità di pagamento. Eppure dal marzo del 2013 al giorno delle mie dimissioni dal gruppo del Pd in Senato sono trascorse 56 mensilità. Abbastanza occasioni per farlo, non crede?

B. Dal marzo 2013 avete approvato quattro bilanci del Pd, tutti a sua firma. Neanche in quelle occasioni ha ritenuto opportuno comunicarmi alcunché.

C. Non sembra opportuno che il presidente del Senato sostenga con soldi pubblici l’attività di un partito, così come per prassi centenaria non è chiamato a dare col voto alcun contributo politico. Ecco perché ero convinto che non aver ricevuto richieste di contributi dipendesse da una visione condivisa di questo modello. Sarò felice se vorrà spiegarmi la ragione per cui ha cambiato opinione.

D. Visto che il suo disappunto per la mia presunta morosità si è trasformato in sprezzanti dichiarazioni pubbliche, vorrei capire cosa ne pensa dei circa 250 mila euro che il Gruppo del Pd in Senato ha percepito dal marzo del 2013 al 26 ottobre del 2017 in ragione della mia iscrizione al Gruppo medesimo.

E. La mia dichiarazione dei redditi da lavoro dipendente (non da fumose consulenze) è pubblica da cinque anni, ma solo oggi diventa tema di attacco da parte sua.

F. La pensione da magistrato, di gran lunga inferiore al tetto dei 240 mila euro, dalla quale è stato prelevato per tre anni il dovuto contributo di solidarietà, previsto dalla legge, è frutto di 43 anni di lavoro svolto con impegno, senso delle istituzioni e spirito di sacrificio, condiviso con la mia famiglia. Non certo qualcosa di cui vergognarmi.

G. Inoltre, come lei sicuramente saprà, nel mio secondo giorno da presidente del Senato ho scelto di dare un segnale di sobrietà tagliando, fatte salve le indennità irrinunciabili, varie voci tra cui quelle previste come “rimborso spese per l’esercizio del mandato”, esattamente quella dalla quale i parlamentari prelevano la quota che versano nelle casse del Pd. Oltre ai tagli alle mie indennità ho dimezzato il costo complessivo lordo del gabinetto del presidente e del fondo consulenza, con un risparmio annuo di circa 750.000 euro. Al termine del mio mandato avrò dunque fatto risparmiare alle casse dello Stato più di quattro milioni di euro.

Non ritengo pertanto sussista alcuna delle ragioni da lei addotte nella sua infamante lettera. Aggiungo una cosa.

Lasci fuori da questa orrenda strumentalizzazione i dipendenti del Pd. Sono in cassa integrazione in virtù di una gestione economica e finanziaria disastrosa e di un indebitamento milionario causato, in primis, dalla fallimentare campagna referendaria: a loro, così come ai giornalisti dell’Unità, di Europa e alle loro famiglie, va tutta la mia solidarietà. Questo usato da Lei e da alcuni suoi colleghi di partito è un modo di condurre il confronto politico che rifiuto: mi auguro che non sia questo il tono della vostra Campagna elettorale. Di certo non sarà il mio, se non costretto.