Insieme a insostenibili livelli di disoccupazione, in particolare per le generazioni più giovani e per le donne, con punte drammatiche nel Mezzogiorno, dilagano, incentivate da norme ad hoc e persino da agevolazioni fiscali e contributive, forme esplicite o implicite di lavoro gratuito e di lavoro povero. La regressione del lavoro riguarda tutte le forme di lavoro, subordinato classico, autonomo, professionale.
Nella discussione abbiamo concentrato l’attenzione sulle cause strutturali della regressione delle condizioni del lavoro, a partire dal carattere sistemico della “variabile” lavoro. Vuol dire che, per la piena e buona occupazione, è prioritaria la politica macro-economica: le politiche di bilancio, le politiche monetarie, le politiche industriali, la regolazione dei movimenti di capitale e di beni e servizi. La riscrittura delle cosiddette “riforme strutturali” può contribuire a invertire la rotta, ma soltanto in un quadro macroeconomico adeguato.
Insomma, la deriva ormai in corso da almeno tre decenni, va combattuta a più livelli istituzionali e politici: UE, nazionale e territoriale
Le proposte prioritarie:
- Correggere la Direttiva Bolkestein, la Direttiva sui lavoratori dislocati, la Direttiva sui servizi professionali. I Trattati europei sono strutturati intorno al principio della concorrenza quale principio regolativo fondamentale e, quindi, promuovono mobilità dei fattori produttivi in un mercato unico interno, senza standard sociali, partecipato da paesi, in particolare dopo l’allargamento a Est, profondamente diseguali in termini di condizioni del lavoro, retribuzioni e welfare. Il principio del Paese di origine va sostituito con il “principio di territorialità”, ossia, da un lato, le attività (ad esempio, i servizi di call center) devono essere svolte nel territorio dove effettivamente opera l’impresa committente e, dall’altro, alle attività svolte, a prescindere dal paese di origine del lavoratore o dell’impresa, vanno applicate le condizioni contrattuali del paese di svolgimento delle attività.
- Abrogare il Jobs Act. Il Jobs Act è una legge di sistema finalizzata alla precarizzazione, all’abbattimento della capacità contrattuale di lavoratori e sindacati e, quindi, alla svalutazione del lavoro. La misura principale è stata l’abrogazione dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori, norma di civiltà giuridica contro licenziamenti discriminatori o ingiustificati sul piano economico. La legge ha anche indebolito per le rappresentanze dei lavoratori le possibilità di limitare i demansionamenti e di contrattare l’utilizzo di tecnologie per i controlli a distanza. Infine, il Jobs Act ha esteso a dismisura l’ambito di utilizzo dei voucher, prima aboliti in vista del referendum abrogativo promosso dalla Cgil, poi con un colpo di mano sostanzialmente reintrodotti dal Parlamento.
- Approvare legge per individuare le organizzazioni sindacali e datoriali rappresentative per firmare contratti collettivi di comparto, in modo da arginare la concorrenza al ribasso sulle condizioni di lavoro determinata da rappresentanze fittizie.
- Introdurre per tutte le attività di lavoro autonomo l’equo compenso, determinato in riferimento ai minimi retributivi del contratto nazionale di lavoro prevalente nel settore nel quale il lavoratore o la lavoratrice presta servizio.
- Riscrivere radicalmente l’alternanza scuola-lavoro. La legge 107/2015, cosiddetta “Buona Scuola”, impone nella stragrande maggioranza dei casi attività a scarsissimo valore formativo e gratuite. Il lavoro deve avere effettivo contenuto formativo.
- Fermare tirocini extracurricolari gratuiti. È una delle forme di diffusione del lavoro gratuito, motivate dal presunto valore formativo del tirocinio e dalla “promessa” di occupazione. Come, per l’alternanza scuola-lavoro, anche i cosiddetti tirocini vanno remunerati in forme dignitose e in riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro.
- Eliminare gare al massimo ribasso e i voucher per il lavoro nei Comuni e nelle Regioni. Le gare al massimo ribasso sono uno degli strumenti più efficaci per la svalutazione del lavoro. Generano sistematicamente una catena di sub-appalti al fine di comprimere i costi e intensificare lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori. Le cosiddette “clausole sociali” vengono facilmente aggirate, grazie anche a sentenze della Corte di Cassazione. Inoltre, il passaggio dall’impresa uscente all’impresa subentrante nell’appalto determina, in via ordinaria, la perdita di anzianità di servizio, quindi il declassamento contrattuale e retributivo e, dall’entrata in vigore del Jobs Act, l’applicazione del contratto a tempo indeterminato senza le garanzie dell’art. 18. Almeno nel settore pubblico e, in particolare, nelle amministrazioni comunali e regionali, ne va promossa, come per i voucher riverniciati, l’eliminazione.
- Introdurre il “delegato all’innovazione” nell’ambito del programma “Industria 4.0” al fine di innalzare e adeguare la formazione dei lavoratori e delle lavoratrici all’ICT.
- Ricostruire il welfare universalistico, in particolare nella cura della salute: data la precarietà, la variabilità, la discontinuità del lavoro è la soluzione per riconnettere diritti fondamentali e lavoro. Nel welfare, va riconosciuto e garantito il diritto alla casa, decisivo per evitare che lavoro precario sia vita precaria.
- Redistribuire i tempi di lavoro. L’innovazione tecnologica apre straordinarie possibilità di liberazione dal lavoro e del lavoro alienante. Ma il lavoro rimane diritto fondamentale, condizione di dignità della persona e di cittadinanza democratica. La redistribuzione dei tempi di lavoro, oltre a una griglia normativa, deve far perno sulla contrattazione aziendale per evitare misure uniche e dannose. In tale quadro, vanno eliminate le insostenibili iniquità della Legge Fornero, a cominciare dall’innalzamento automatico dell’età di pensionamento in relazione all’aspettativa media di vita.