“Sono stata anch’io richiedente asilo, clandestina, respinta” – ha ricordato in questi giorni ad affollate platee di giovani e giovanissimi studenti, Liliana Segre, la testimone del genocidio appena nominata Senatrice a vita. Lo ha fatto rammentando l’esperienza, condivisa con decine di migliaia di altri, donne, uomini e bambine come lei, che vennero respinti alla frontiera tra Italia e Svizzera dalle autorità elvetiche perché, come si disse allora, “la barca è piena” e non vi era spazio per accogliere chi fuggiva dalla persecuzione.
“Vivevamo immersi nella zona grigia dell’indifferenza. L’ho sofferta, l’indifferenza. Li ho visti, quelli che voltavano la faccia dall’altra parte. E anche oggi ci sono persone che preferiscono non guardare” – ha insistito spesso Segre.
Non vi fu solo indifferenza. Quest’anno la Giornata della Memoria coincide con l’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali. Bene ha fatto il presidente della Repubblica Mattarella ad affermare che esse restano “una macchia indelebile della storia del nostro Paese.” E che l’inizio,nel 1938, della persecuzione razziale degli ebrei non fu una deviazione, ma qualcosa di insito nella natura violenta e intollerante di quel sistema.
Molti italiani furono infatti “volenterosi carnefici”. Mentre troppo spesso si preferisce alimentare il mito degli “italiani brava gente”, cercando di sostenere che l’Italia e il fascismo sarebbero rimasti “fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto.” Basterebbe leggere un libro importante – I carnefici italiani di Simon Levis Sullam (pubblicato da Feltrinelli nel 2015) – per rendersene appieno conto. Proprio sulla base del censimento, condotto a partire dal 1938, della popolazione di “razza ebraica”, tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, dalle principali città fino ai più piccoli paesi del centro-nord, migliaia di persone vengono rastrellate, detenute e trasferite verso i campi di concentramento, di lavoro e di sterminio.
Almeno metà degli arresti di ebrei fu condotta da italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei militari tedeschi. Membri della Milizia fascista, poliziotti, carabinieri, finanzieri, semplici impiegati, questori e prefetti, accaparratori di beni sequestrati, delatori che segnalarono, denunciarono, consegnarono le vittime ebree, talvolta i propri vicini di casa. Migliaia di persone, italiani, che si resero direttamente complici, quindi corresponsabili del genocidio.
Infine – ricorda ancora Levis Sullam – vi furono quelli, la stragrande maggioranza, che stettero a guardare o “rivolsero lo sguardo altrove” ignorando volutamente quanto stava avvenendo. Pochi, troppo pochi, furono invece quelli che, a rischio della propria vita, operarono per proteggere, nascondere, salvare chi era colpito dalla persecuzione.
Ricordare tutto questo, le tragiche dimensioni di ciò che è stato, è oggi fondamentale. Proprio nel momento in cui la malapianta del rigurgito neofascista e neonazista sembra riattecchire su un terreno che è stato abbondantemente concimato dal letame dell’intolleranza e del razzismo, sparso a piene mani nel dibattito politico, pubblico e mediatico. Sdoganato nella cinica ricerca del consenso, anche elettorale. Strumentalizzato nella sempiterna identificazione di un facile nemico in chi è più debole o “diverso.” Fino all’esplicito elogio del fascismo.
Una preziosa ricerca, condotta in questi giorni dalla SWG, segnala che il 65 per cento degli italiani (e il 78 per cento delle ragazze e ragazzi sotto i 24 anni!) ritiene decisivo combattere il ritorno delle ideologie neofasciste e neonaziste. Ma ci allarma anche per il fatto che esiste un 27 per cento che crede sia “poco” o “per niente” utile farlo.
Un dato che ci avverte di quanto sia necessario un ingaggio straordinario delle forze sociali e culturali, e della politica, su questo terreno: uno sforzo certo informativo ed educativo, ma anche e soprattutto, al di là di ogni retorica d’occasione, un impegno rigoroso a espungere radicalmente da ogni discorso pubblico qualsiasi elemento di discriminazione, intolleranza, razzismo. Oggi – gennaio 2018 – non è purtroppo così. Ma è un dovere che sento profondamente mio e collettivamente nostro.
Perché tutti e ciascuno, per combattere complicità e indifferenze, dovremmo avere in ogni momento ben presente il monito di Liliana Segre: “Tu voltati, voltati sempre a guardare l’altro!”
Nicola Fratoianni